Viaggio al termine della notte [Luis-Ferdinand Céline]
Finisce davanti a un oste e a un bicchiere di bianco in una piovosa sera di dicembre l’incontro con il mio ex professore di italiano. Non so quanto siamo diversi dopo ventisette anni, sento quanto siamo gli stessi, uno di fronte all’altra a parlare del niente e della vita. Non sto seduta sopra la cattedra, ma a parte questo dettaglio, il resto è puro flashback. Lo seguo nel suo pensiero disincantato, sotto il velo di gentile sfiducia che da sempre lo veste. Sincero, come uno che ha l’età per esserlo davvero, conclude che non ha senso scrivere, non ha senso perché non siamo capaci di vera grandezza. E mi srotola le prove, mi fa nomi e cognomi. Li scrivo su una lista, come compiti per casa che non ha mai assegnato e inizio da questo libro.
Luis-Ferdinand Céline “Viaggio al termine della notte” è difficile da descrivere, è un lungo delirio che spazia dagli orrori della Grande Guerra, alle assurdità malate del colonialismo, al sogno disincantato dell’America, alla povertà umana delle periferie delle grandi città. Le prime sessanta pagine sono pura follia, incomprensibili a prima vista, ipnotiche, intense. Non lo posso descrivere, né giudicare, scelgo solo un passaggio: “Pensandoci bene adesso, a tutti i matti che ho conosciuto, non posso fare a meno di dubitare che esistano altre autentiche realizzazioni del nostro io più profondo che non siano la guerra e la malattia. La grande fatica dell’esistenza non è forse insomma nient’altro che questo gran darsi da fare per restare ragionevoli […] per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi.” Un romanzo da assaporare come un vecchio brandy, a piccoli sorsi, solo per intenditori.
Irene Pavan