Caffè freddo

Categoria PREMI LETTERARI – Antologia: PREMIO MOAK

CAFFE’ FREDDO (un po’ tagliato per motivi di copyright)

Ore 6.15 del mattino, la campagna intorno a Rovigo era coperta da una fitta nebbia; la temperatura si aggirava già sui venticinque gradi con un tasso di umidità che sfiorava il novanta percento. Un’altra giornata calda e densa di metà agosto stava per iniziare. Dalla finestra aperta della cucina, si vedeva una donna minuta armeggiare con uova, zucchero e biscotti, si muoveva cercando di fare meno rumore possibile, in maniera svelta e precisa. Aveva capelli di un colore biondo spento, leggermente più radi sul davanti, dritti come le setole di un pennello. Depilazione poco precisa, mani consumate, viso tirato dentro ad un’aria assorta. Aveva dei bei lineamenti e una figura esile e dolce, nonostante le gravidanze le avessero lasciato un giro vita sformato.  Indossava una t-shirt abbondante di colore bianco con il collo ampio che lasciava intravedere le ultime vertebre ingobbite della cervicale.

Arianna Lorenzini, vedova Pasiani, aveva quarantacinque anni, tre figli e un lavoro come addetta alle pulizie presso il grande albergo costruito davanti all’outlet. Viveva in una piccola villetta a schiera di colore giallo: settantacinque metri quadri divisi in due piani e mezzo, intorno un giardino con tre aiuole e nove tombini.

Arianna inspirò profondamente, l’aria calda quella mattina era insopportabile. Non aveva molto tempo, doveva sbrigarsi a preparare il dolce per il compleanno di Stella. […] Pensava a questo e a tutto quello che avrebbe dovuto fare durante la giornata: all’incastro preciso dei figli, delle loro priorità, ma anche alle priorità della vicina di casa che non avrebbe continuato a tollerare la sua siepe troppo alta, a quelle della madre che da giorni non vedeva e poi… Priorità, esigenze, che parole diverse rispetto a quella più nobile di bisogno, rifletteva amara. Arianna era fatta così, la sua testa non smetteva mai di funzionare passando da pensieri logici e pratici a riflessioni intense sul senso della vita e dei sentimenti e, fortunatamente, non sempre riusciva a darsi una spiegazione.

[…] Prima di chiudere lo sportello però il suo sguardo si posò su una vecchia caffettiera. Non avrebbe dovuto prenderla, non era il momento adatto, sapeva che avrebbe potuto farle saltare in aria l’intera mattinata. Eppure, come un automa, prese in mano la vecchia Bialetti, scese con attenzione dalla sedia e si sedette sopra pesantemente.

L’omino del marchio la guardava e sembrava ridere di lei. Sì, Arianna era sicura che quel sorriso beffardo era per lei, per essersi illusa che sarebbe stato possibile dimenticare. “No, dimenticare non è di questo mondo”, le diceva l’omino. Ingenua, tremendamente ingenua!

Aprì il coperchio, stringendo tra le dita il pomello giallo ancora nuovo e riuscì a percepire un vago aroma di caffè. Possibile? Possibile che dopo cinque anni si potesse sentire ancora il profumo di quel suo ultimo caffè?

Chiuse gli occhi e, come non faceva da molto tempo, si lasciò andare ai ricordi.

Cinque anni prima, le scuole erano appena terminate ed i bambini avevano passato la notte dai nonni. La mattina calda e afosa faceva presagire una torrida giornata. Era scesa come sempre verso le sette e mezza, suo marito era già in piedi da un paio d’ore, erano mesi che il suo sonno era diventato irregolare. Prese la caffettiera, la riempì con la polvere e un tenue aroma si diffuse piacevolmente in tutta la cucina. Davide entrò dopo pochi minuti, era pallido, forse più del solito. Arianna lo salutò distrattamente, non fermò lo sguardo su di lui nemmeno per un istante, non avrebbe saputo dire che maglia indossasse, se fosse scalzo o se avesse già le scarpe ai piedi, se si fosse rasato o meno. Arianna mise la caffettiera sul fuoco, preparò le tazzine con i rispettivi piattini sul tavolo e si occupò del lavello che presentava dei fastidiosi aloni. Dopo pochi minuti sentì il familiare borbottio, prese la piccola presina verde e versò il caffè bollente in entrambe le tazze. Aspettò un paio di minuti, forse Davide era tornato in bagno, tanto lei odiava bere le cose calde, avrebbe aspettato il ritorno di suo marito. Passarono diversi minuti che, come sempre, usò per stilare mentalmente i suoi programmi giornalieri. Chiamò Davide, lo richiamò a voce più alta. Bussò alla porta del bagno, attese, poi bussò di nuovo. Spalancò la porta, ma la stanza era vuota. Iniziò a spazientirsi, pensando che l’uomo si fosse messo a trafficare con qualcosa in giro per la grande casa che all’epoca possedevano. Visibilmente scocciata, iniziò a cercarlo dappertutto chiamandolo con un tono via, via sempre più isterico. Decise di rientrare per chiamarlo al cellulare; quell’ebete se n’era andato scordandosi la colazione, pensava. Aggirò la casa per entrare dalla porta posteriore e rimase paralizzata. Davide penzolava come una macabra tenda dalla pompeiana. Aveva una corda stretta al collo. Il viso era di un colore bluastro disumano, gli occhi sembravano fuori dalle orbite. In preda al panico Arianna prese una delle sedie che stavano intorno alla tavola per i pranzi estivi, ci salì velocemente e cercò di togliere la corda, ma non ce la faceva. Il peso dell’uomo era tre volte il suo e le mani che affondavano nella pelle cercando di sciogliere i nodi non riuscivano nel loro intento. Il cuore le batteva in gola così forte da toglierle il respiro, ma lei continuava a chiamare il marito, contorcendo la corda, ormai il suo era un rantolo disperato. Gli chiedeva di non morire, di continuare a vivere, di rimanere per i figli, per lei che lo amava, che lo aveva sempre amato. Provò a tagliare la corda con la forbice da giardino, ma non riuscì a scalfire l’anima in metallo della fune. Quando le fu chiaro che non avrebbe mai avuto la forza necessaria per far scendere il corpo senza vita, rientrò barcollante in cucina. Trovò le tazze con il caffè ormai freddo sul tavolo e, senza rendersi conto di ciò che stava facendo, si sedette e bevve la sua. Poi prese il cellulare e chiamò il 118. Quando chiuse la comunicazione vomitò il caffè sul pavimento lucido della cucina.

Quello fu il suo ultimo caffè e l’ultimo giorno di quel matrimonio apparentemente felice.

I giorni che seguirono furono lo svolgersi di una telenovela della quale non si sentiva protagonista. I giornali dedicarono quarti di pagina all’ennesimo imprenditore suicida, alla crisi che aveva investito il settore del legno, la provincia di Rovigo, la società. Tutti parlavano di forti difficoltà finanziarie, di accordi saltati con le banche, di contratti fraudolenti firmati nei mesi precedenti. Tutti sapevano improvvisamente tutto; mentre lei, altrettanto improvvisamente, si accorse di aver vissuto gli ultimi mesi con un estraneo. Poi il funerale, le pratiche per la successione, i colloqui con il liquidatore, gli sguardi biechi della gente, la falsa pietà, i figli che aspettavano il ritorno del padre dall’ennesimo viaggio. La solitudine, la voglia di mollare tutto, il bisogno di gridare, di strappare solo un secondo alla morte per chiedere una spiegazione. Sì, perché lei Arianna Lorenzini, vedova Pasiani non aveva capito. Il pugno le era arrivato diretto allo stomaco, e al colpo non aveva avuto il tempo di prepararsi. Era caduta così davanti a tutti, inerme, indifesa, ignara. Lei, con la sua vita tranquilla, una laurea in scienze dell’educazione fatta apposta per tirare su tre meravigliosi bambini, vacanze due volte all’anno, una decina di abiti firmati senza doverli recuperare all’outlet, una Mini Cooper gialla che faceva tanto vip. Lei e la sua ampia villetta pulita dalla signora ucraina, lei e le sue feste memorabili, lei e quell’uomo che piano, piano si era trasformato in un’ombra. Il braccio che avvolgeva le sue spalle, la mano che teneva le sue dita, l’odore dolce di anice e caffé vicino al collo, tutto lentamente era sparito. Immagini sbiadite di un matrimonio che si confondevano con serate di solitudine, con cene silenziose, compleanni dimenticati, giorni tutti uguali dentro ai quali la vita scorreva troppo veloce. Lei non si era accorta di nulla, questo il suo grande ripianto, la sua terribile colpa che nessuno mai sarebbe riuscito a toglierle di dosso.

Il sole era ormai alto ed il traffico sulla strada andava aumentando, Arianna rimaneva seduta con la Bialetti in mano, dentro alla sua cucina di finto ciliegio.  Riaprì il coperchio per sentire di nuovo quel profumo, ma improvvisamente sembrava scomparso. Percepiva un odore di metallo bagnato, un po’ sgradevole, pungente. In un lampo le balenò un’idea strana, voleva risentire il profumo del caffè, per un momento, rivoleva quel profumo. Pensò allora che nel mobiletto alto teneva un vecchio pacco di caffè, rimanenza di una cesta natalizia di qualche anno prima. Sorridendo tra sé, come se fosse stata una ragazzina che faceva una bravata, cercò il pacchetto, lo aprì lentamente con la forbice ed in un attimo sentì il profumo della polvere marrone. Avrebbe potuto accontentarsi, insomma avrebbe potuto richiudere il sacchetto, riporlo nell’armadietto in alto, archiviare la vecchia Bialetti, mettere il dolce in frigo, ripulire la cucina. Invece decise di concedersi una piccola trasgressione. Si sarebbe presa dieci minuti, il tempo di rimettere in funzione la vecchia caffettiera e versare il liquido caldo nella tazzina. Non sapeva ancora se sarebbe stata in grado di berlo, ma questo non aveva importanza.

Accese il fuoco e lo regolò al minimo, si sarebbe presa tutto il tempo necessario, agganciando nel frattempo ricordi ed emozioni tra loro. Forse il peggio era passato, pensava, forse tra poco la strada ripida si sarebbe fatta più dolce e lei avrebbe potuto tirare il fiato.  [….]

Il gusto forte e amaro le diede inizialmente fastidio, ma poi diventò piacevole e si trovò a cercare l’ultimo goccio cremoso rimasto a velare la tazza. Un’improvvisa sensazione di benessere si impadronì di lei, si appoggiò allo schienale della sedia rilassando i muscoli e sorridendo come una sopravvissuta ad una battaglia. In quel momento entrò in cucina Marco, il figlio maggiore. La somiglianza con padre in quel momento le parve più incredibile del solito. Lo guardò con un’aria sorpresa e un mezzo sorriso sulle labbra; il ragazzo si fermò davanti a lei e le chiese “Ciao mamma, tutto bene? Sembri una che è appena stata investita da un camion e ne sia uscita viva.”

[….] Un altro giorno, e poi un altro ancora, uno dietro l’altro come i passi di una lunga passeggiata. Si sorprese ad aver pensato a quella parola, rifletté un istante e l’idea che la vita potesse essere una passeggiata le piacque. Sicuramente qualcuno avrebbe potuto obbiettare che dava un’idea troppo effimera: la vita era molto più complicata e difficile di una passeggiata. Ma lei, pensando a quella parola, immaginò la mano che avrebbe voluto tenere durante il cammino, andando così, senza meta e senza fretta, respirando a pieni polmoni un’aria finalmente pulita. Percepì in quel preciso istante un tenue profumo di anice e caffè, e un improvviso soffio d’aria la avvolse in un abbraccio caldo, lasciandola senza fiato;  capì allora di non essere sola ed un sorriso le piegò le labbra. Guardò il cielo infinitamente azzurro di quella mattina d’estate  e decise che finalmente era arrivato il momento di perdonare. Perdonare l’uomo che aveva sposato, il marito che aveva voluto abbandonare prematuramente la sua vita; ma soprattutto era il momento per perdonare se stessa.  Dimenticare non è di questo mondo, si ripeteva, ma il perdono lo deve essere, perché altrimenti la vita diventerebbe un fardello troppo pesante da portare e nemmeno lei ce l’avrebbe fatta. Decise che dalla mattina seguente si sarebbe concessa qualche buon caffé e almeno cinque minuti per tuffarsi nei suoi ricordi; poi lentamente avrebbe iniziato a chiudere qualche porta della sua mente, affinché il dolore non uscisse più.

[Autore: Irene Pavan, anno: 2016]

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