Vietato ai minori

Categoria RACCONTI

VIETATO AI MINORI

La sera era scesa velocemente a chiudere una giornata da dimenticare. La finestra della camera lasciava filtrare l’umidità, accompagnata a quella sensazione spiacevole che colpisce le ossa nel profondo ed irrigidisce i muscoli e l’umore.

Chantal era distesa sul letto, i capelli sparsi e aggrovigliati le cadevano sul corpo come fossero una grande rete che la imprigionava. Capelli grossi, ispidi, non ricci, non dritti, nemmeno biondi o castani; i suoi capelli avevano un indefinito e anonimo colore corda e, una volta intrecciati, parevano proprio una fune. A Chantal però non piaceva raccoglierli, anche se per ragioni di sopravvivenza sociale era obbligata a farlo; una volta a casa, libera dagli sguardi della gente, li lasciava cadere e appoggiarsi ovunque: sul suo corpo, sulle sue cose e stasera anche sulle sue lacrime.

Si era rifugiata nella sua stanza portando al riparo dagli occhi del mondo, la rabbia, l’amarezza e la delusione di quella giornata. Piangeva ascoltando la sua musica preferita, sussurrando le parole piano, tenendo gli acuti nella gola per non farsi sentire dai vicini e dai suoi genitori, tratteneva i suoi pensieri e le sue angosce anche se in realtà avrebbe voluto gridare centinaia di parole, vomitarle con tutta la rabbia che aveva in corpo, sentimento che continuava a nutrirlo quel corpo, facendolo ingrassare, rendendolo goffo e graziato sotto strati adipe e grigiore.

Se si fosse messa a gridare, questa sera sua madre non l’avrebbe sentita comunque, perché come tutti i venerdì la donna era impegnata a prepararsi per l’uscita con le amiche. Aveva trascorso il pomeriggio dalla parrucchiera, passato ore in bagno a depilarsi, scelto con cura abiti da ventenne per poi fotografarsi davanti allo specchio, ultimo vezzo che le permetteva in pochi click di mostrare il risultato di tanta dedizione all’apparenza.  Risultato che Marco, compagno e padre di Chantal, sembrava non cogliere perché anche lui, il venerdì sera (ma anche il lunedì ed il mercoledì), li trascorreva inderogabilmente con gli amici. La ragazza stava allora dalla nonna, rannicchiata sul divano sotto una stantia coperta di lana che aveva scaldato, il secolo prima, i giovani soldati disertori nel fienile del bisnonno.

C’erano sere però, come questa, nelle quali lei avrebbe desiderato stare a casa sua o meglio, stare proprio in camera sua, sotto le lenzuola, al riparo dal mondo intero. C’erano sere, come questa, nelle quali le sembrava impossibile riuscire a sopravvivere agli sguardi di commiserazione della madre, all’insofferenza mal celata del padre, ai sospiri della nonna che sosteneva che il mondo a quattordici anni non poteva che essere rosa e meraviglioso.

Perché gli adulti pensavano di avere il diritto esclusivo ad una vita di schifo? Perché i sui anni erano sempre troppo pochi per capire, per fare, per dire, sempre maledettamente pochi per gridare che si sentiva sola anche se in classe c’erano venticinque ragazzini come lei? Sola, anche se ogni giorno le persone più care le stavano intorno, in realtà senza essere presenti?

Nei mesi scorsi forse esausta dalle sue continue crisi di pianto, la madre aveva condiviso con lei delle confidenze, le aveva raccontato di un tempo in cui era giovane e sovrappeso, in cui era il bersaglio di scherzi ed insulti dei compagni, fino ai sedici anni quando grazie ad una dieta ferrea perse notevole peso. Le aveva raccontato la sua storia senza nascondere nulla: le sofferenze, la fame, le lacrime e i capogiri che la sorprendevano a scuola; man mano che i risultati cominciavano a farsi visibili però, le persone intorno a lei avevano iniziato a comportarsi diversamente e lei stessa si sentì una persona nuova. Prestò minuziosa attenzione all’abbigliamento e al trucco, trasformò la sua persona nell’aspetto esteriore, ma anche nell’atteggiamento, scegliendo le amicizie in base a precise strategie. Alla fine di tutto, riuscì ad avere fidanzati di bell’aspetto, alcuni persino ricchi, e riuscì a far innamorare di lei il più bel ragazzo del paese: Marco Stregozzi, attuale compagno e padre della sua paffuta ragazzina. Questa era stata la posta vinta al Bingo della vita da sua madre: un compagno bellissimo, invidiato da tutte le amiche, difronte al quale la negazione di sé stessa, l’autocensura del pensiero, la fame e l’acido lattico prodotto in ore e ore di palestra erano solo frivolezze. La madre le aveva promesso come regalo di compleanno per i suoi sedici anni una cura da una dietologa, un programma di sedute da un’estetista e un radicale cambiamento del guardaroba. Aveva le idee chiare la donna: quell’essere sgraziato che imbruttiva le foto famigliari, aveva i mesi contati. Questa avrebbe dovuto essere una notizia entusiasmante, invece Chantal ricordava che mentre la donna le proponeva il suo programma, le sue parole avevano iniziato a turbinare in modo confuso dentro di lei e un’angoscia profonda le aveva bloccato la gola. Le proiezioni della madre le sembravano assurde, se le figurava come grandi tenaglie che avrebbero tagliato le sue ali, mutilando il suo desiderio di volare libera, senza vestiti, senza trucco né maschere.

Chantal Stregozzi avrebbe infatti voluto indossare gli abiti che lei stessa disegnava: pezzi coloratissimi, ricchi di fiocchi e fiori, ampie gonne che disegnavano enormi ruote, camicette plissettate, golfini con paiettes sui quali si appoggiavano borsette a forma di frutta. Nei suoi disegni le modelle erano sempre sorridenti, non necessariamente magre e portavano lunghi capelli sciolti che avevano sfumature improbabili. Disegnava la sua anima allegra e libera attraverso donne dai mille volti, ritratte quasi sempre da sole, non disegnava mai gli uomini tanto ambiti dalle sue compagne e dalla madre. Non aveva infatti ancora intuito a cosa potesse realmente servire un principe azzurro, non aveva bisogno di qualcuno da adorare. Lei avrebbe voluto un amico, una spalla sulla quale piangere, braccia forti per essere stretta, sostenuta, confortata. Immaginava di sposarsi con un grande peluche, morbido, affettuoso, sicuro. Un tipo un po’ come Daniel, il suo compagno di classe, possibilmente meno imbranato e confuso, ma con la stessa bontà d’animo. Daniel era l’unico che l’aiutava quando era in difficoltà, il solo con il quale poteva parlare, pur con le limitazioni tipiche del sesso maschile che non riesce a comprendere i voli pindarici dell’universo femminile. Non riusciva a comprenderli, ma li sapeva ascoltare e questo a Chantal bastava per sentirsi meno sola.

Questa sera però nemmeno Daniel avrebbe potuto aiutarla, perché era troppa la frustrazione e la tristezza nel cuore della ragazza. La settimana era stata un susseguirsi di piccoli fallimenti, cose banali e abbastanza ricorrenti: battute cattive da parte dei compagni, immondizia dentro lo zaino, due arrivi in ritardo e su tutto lo sguardo cinico e crudele di Sofia. Sofia era la sua croce, una ragazza non particolarmente bella e nemmeno intelligente, ma con una perfida cattiveria che si divertiva ad indirizzare verso Chantal. Le ragioni per le quali proprio lei doveva essere il bersaglio di quell’odio cinico e malato, non erano note a nessuno. Lo sguardo critico di Sofia però era sempre pronto a cogliere qualsiasi minima difficoltà o imbarazzo della compagna, qualsiasi occasione di debolezza veniva prontamente registrata da quegli occhi attenti, per essere trasformata in una critica aperta o peggio in una figuraccia plateale. Sofia con il suo lavoro attento e paziente era riuscita a creare il vuoto intorno a Chantal: nessuno a scuola si sarebbe mai seduto volontariamente vicino a lei e nessuno avrebbe mai offerto un gesto di amicizia verso “Chantal Schitto”. Quel finto cognome le era stato affibbiato dalla sua maestra dell’asilo e derivava da “schittin” che in dialetto significava piccolo guano, ma aveva un’accezione affettuosa riferita a qualcosa di piccolo ed esile, com’era Chantal all’asilo e quindi ben prima della sua esplosione fisica preadolescenziale. Dato però che il paese contava poche anime, quei primi compagni erano rimasti presenti anche nei gradi di scuola successivi e con loro, quello scomodo secondo cognome imprudentemente scelto dalla maestra. Le insegnanti d’altronde non erano mai state di grande aiuto a Chantal, bambina a loro giudizio svogliata, distratta, apparentemente non interessata alla scuola, creatura apatica che amava rifugiarsi in mondi fantastici durante le lezioni. A tutto ciò però Chantal era abituata e, fino ad un certo limite, preparata; quello per cui non era preparata era avvenuto questo venerdì.

La sua classe era andata in visita al museo locale che distava solo una mezz’ora di cammino dalla scuola. Chantal camminava facendo dondolare lo zainetto, era l’ultima della fila e si attardava curiosando le vetrine dei negozi, gettando sguardi allegri sui passanti. Ad un certo punto però un’immagine bloccò il suo incedere spensierato: una coppia seduta al tavolino di un bar si guardava negli occhi, mano nella mano. Un gesto intimo che durò solo un’istante perchè la donna si alzò immediatamente e, tenendo la borsa stretta sotto al braccio, si avviò fuori del locale, l’uomo la seguì a breve distanza. Lei camminava spedita e di tanto in tanto voltava lo sguardo verso di lui sorridendo, lui aveva un’espressione strana, estasiata e al tempo stesso euforica. Girarono l’angolo dove salirono nella stessa piccola utilitaria parcheggiata in divieto di sosta. Nell’intimità dell’auto, forse pensando di non essere visti, le due teste si unirono in un lungo bacio. Chantal rimase immobile, impietrita continuando ad elaborare dentro di sé l’immagine dell’uomo: suo padre.

Difficile dire quanto tempo possa durare un istante, perché in quei pochi minuti lei ripercorse tutte le sofferenze e le rinunce della madre, i suoi sogni apparentemente realizzati, la sua vita proiettata nel creare qualcosa che si era rivelato finto, falso e ipocrita. Rivisse la sua infanzia, spesa nello sforzo continuo di piacere ad un padre bellissimo, nel sentirsi sempre inadeguata davanti a quella perfezione, in colpa perenne per non assomigliargli. Delusione e tradimento avevano bloccato i suoi passi spensierati. Solo pochi minuti, poi Chantal riuscì, come un automa, a girare la testa verso la professoressa che una decina di metri più avanti l’attendeva, incrociando lo sguardo beffardo di Sofia che, come sempre, aveva visto tutto.

Improvvisamente la voce della madre interruppe i pensieri della ragazza, il richiamo a prepararsi per uscire era perentorio ed isterico, allora lei si alzò e si guardò allo specchio. Gli occhi gonfi dal pianto, il viso stravolto incorniciato da una massa disordinata di capelli la faceva apparire una creatura pietosa. Prese una vecchia spazzola dal cassetto ed iniziò a pettinarsi, raccogliendo poi la chioma in una stretta coda di cavallo, si sciacquò il viso con l’acqua fredda, mise una maglia pulita e cambiò le calze logore. Si riguardò allo specchio e, nell’immagine più ordinata di sé, vi trovò un’infinita tristezza. Si sentiva come un’invitata ad un ballo in maschera, un ballo dell’ipocrisia al quale volentieri avrebbe rinunciato. Le sarebbe piaciuto che sull’invito fosse scritto “vietato ai minori”, vietato ai cuori bambini che percepiscono gli inganni, ma non riescono a comprenderli. Vietato a chi non ha ancora la pelle abbastanza dura e si lascia ferire dalle menzogne e dall’invidia, portandosi addosso per tutta la vita una sensazione d’inadeguatezza, di velata e irragionevole tristezza.

Chantal prese con sé lo zainetto con le sue cose personali e scese le scale, il padre era sulla porta, con la borsa sportiva sulla spalla, i vestiti griffati, i capelli cristallizzati ad arte con il gel, lo sguardo malinconico che tante donne ritenevano impossibile resistere. Appena vide la figlia si bloccò: “Principessa mia, per fortuna ti sei decisa a scendere, non volevo proprio uscire senza salutarti” disse aprendo completamente la porta che dava all’esterno. Chantal gli corse incontro “Papà, perché non mi porti tu dalla nonna? Così stiamo un po’ insieme mentre facciamo la strada…” lui la guardò stupito fermandosi con un piede dentro e uno fuori casa, rispose: “Ma principessa, sono già in ritardo! Magari la prossima settimana…” Per qualche incomprensibile motivo, un capriccio infantile salì alle labbra di Chantal che aggrappandosi al braccio paterno chiese: “Potresti venire a prendermi a scuola domani, potremmo mangiare un gelato in quella caffetteria in via Oberdam?”

Improvvisamente avrebbe voluto trattenere l’uomo, non lasciarlo andare, avrebbe voluto dirgli di guardare anche la madre con gli stessi occhi con i quali, il pomeriggio, aveva guardato quell’altra donna; avrebbe voluto supplicarlo di guardare anche lei per un momento, per leggerle dentro il suo amore incondizionato ed il suo bisogno di essere capita. Ma a quel punto una sottile ruga di nervosismo piegò le labbra dell’uomo “Principessa, ti sembra di avere ancora l’età per uscire con il papà? Perché non usi quel telefono che ti abbiamo regalato e chiami qualche amica? Mi sembra semplice, no?” scoppiò in una finta risata e a quel punto la ragazza indietreggiò dicendo “Sì papà, hai ragione ma…”. Il padre approfittò della stretta che si era allentata per portarsi definitivamente oltre la porta “Brava principessa, vedi che sei intelligente se vuoi, chissà perché la gente dice il contrario? Bene, ci vediamo domani allora, saluta tu la mamma!”

Chantal chiuse la porta, si piegò su sé stessa e non riuscì a trattenere le lacrime. Sentiva la voce stridula della madre che nella stanza accanto parlava al telefono con un’amica, era già entrata nell’atmosfera frivola della serata, emettendo gridolini festosi e ridicoli. Provò una pena infinita per la donna, avrebbe voluto scuoterla e gridarle che tutti i suoi sacrifici non erano serviti a nulla, che non c’era nulla di vero nel mondo che aveva creato intorno a sé. Avrebbe voluto prenderla per mano e portarla lontano, in un posto dove avrebbero potuto fare un sacco di cose stupide, come ridere, abbracciarsi, rotolare sull’erba sporcandosi e mangiare quello che capitava; un mondo in cui nessuno avrebbe giudicato i loro pensieri folli, le loro scelte sbagliate, l’incedere storto e goffo; un posto in cui bastava amare per essere amati.

Nella fatica di sollevare i suoi numerosi chili dal pavimento però, i suoi limiti le ricaddero addosso: no, lei non avrebbe mai avuto abbastanza forza per fare tutto questo. Lei avrebbe fatto quello che gli altri si aspettavano, quello che da sempre le avevano insegnato: avrebbe indossato la sua maschera e si sarebbe presentata al ballo, tremendamente sola in mezzo a tutti.

[Autore: Irene Pavan, anno: 2019,  ]

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