Estati nelle terre basse

ESTATE NELLE TERRE BASSE

Quella era l’estate dei miei quattordici anni, l’estate delle grandi svolte, del primo bacio, delle uscite con gli amici, del gusto proibito di una birra calda bevuta di nascosto. Era l’estate che avevo atteso, che avevo sognato nei minimi particolari, quella che nei miei pensieri avevo già vissuto mille volte. Mare, sabbia, turisti, i mondiali visti in compagnia, il caldo che avrei sentito davanti ad un altro viso così vicino che perdermi in due occhi nuovi sarebbe stato un attimo. Immaginavo un corpo morbido dove, per la prima volta, avrei appoggiato le dita. Jesolo, Lignano o il Lido di Venezia, un posto o l’altro non avrebbe fatto differenza, la mia fantasia navigava rasente la costa sabbiosa dell’Adriatico, desiderosa di incagliarsi nella prima secca melmosa piena di vita. La notizia che distrusse i miei sogni arrivò un venerdì sera quando quella telefonata dall’ospedale cambiò la mia vita. L’ennesimo tamponamento sulla A4, martoriata dai lavori di ampliamento della terza corsia, aveva prodotto il solito bollettino di guerra: tre morti e quindici feriti. Nell’elenco degli sfortunati c’era pure mio padre, ricoverato in gravi condizioni. Ricostruire gli avvenimenti di quella sera e dei giorni immediatamente successivi è un po’ come rimontare un aggeggio che hai fatto a pezzi sul tavolo della cucina: alla fine ti rimane sempre qualcosa in mano. Ecco, nonostante abbia ricostruito quei momenti più volte nelle mie notti, avanzavo sempre qualcosa che non riuscivo a incasellare: le parole esatte della voce al telefono, la reazione di mia madre, la musica che avevo nelle cuffie, la corsa al gabinetto: tutto si è fuso in un’unica cosa che descriverla nei singoli particolari mi risulterebbe impossibile.

Il filo degli avvenimenti inizia a sciogliersi in ricordi certi solo una settimana dopo la famosa telefonata, quando mi ritrovai nelle terre basse della Piave in quella vecchia casa dei nonni che era stata il mio parco dei divertimenti durante l’infanzia, ma che allora mi sembrava lontana dal mondo più del pianeta Marte. Trenta minuti di strada, trenta banalissimi minuti di macchina mi separavano dalla costa e dalla vita, ma in quell’estate quel tragitto mi fu negato in nome di un lutto che mi costrinsero a vivere ben prima dell’ora.

Riempivo le notti di incubi e i giorni di noia, confinato dentro ad una distesa di pannocchie alte e verdi che avevano il potere di fermare qualsiasi alito d’aria che timidamente potesse dar tregua all’afa. […] Il vecchio, che aveva quasi terminato le parole della giornata, teneva una vecchia bicicletta arrugginita e mi guardava con occhi inaspettatamente vispi. L’Italia avrebbe giocato la semifinale e al primo bar distante solo quattro chilometri, ci sarebbe stato un televisore buono per guardare la partita, così mi disse. Quello che avevamo in casa era rotto dai mondiali precedenti. Stupito gli proposi di andare insieme, ma scrollò le spalle sospirando così a fondo che ebbi l’impressione che avesse sfiatato l’unico soffio di vita in corpo: no, andare a guardare una partita con un figlio che stava strappando ogni singolo minuto al destino era fuori discussione. Trascinai la vecchia bici fuori dal capanno per capire se il mezzo fosse in grado di portarmi alla meta, mia nonna mi guardava dalla porta di casa, fasciata nel grembiule a fiori, piegata dai dispiaceri della vita. Estrasse dalla tasca una banconota, mi disse di usarla per il gelato, era il suo modo gentile per benedire quella fuga verso un momento di svago, lontano dai silenzi pesanti come piombo.

[…] Quando entrai fui investito da un miscuglio di odori: tabacco, grappa e brillantina, nessuno sembrò far caso alla mia entrata, i cinque avventori più il barista erano intenti a seguire la partita. Timido di mio, ancora più riservato per colpa di quell’ombra che la situazione familiare imponeva su di me, scelsi una sedia e mi sedetti accanto alla finestra aperta. Nonostante il volume della tv fosse alto e sovrastato dalle grida degli uomini, sentii dei rumori piuttosto regolari provenire dalla finestra. Annoiato da una partita arenata su un pareggio tattico, decisi di alzarmi per scoprirne la provenienza, vidi una vasca con una grossa tartaruga che cercava disperatamente di uscire, il rumore che sentivo non era altro che il suo scivolare sulla parete strisciando le zampe unghiate. Facile con il senno di poi capire perché non tornai a guardare la partita ma mi fermai dalla tartaruga, era fin troppo evidente lo stato d’animo che ci legava: quel mix tra solitudine, sensazione di essere prigionieri di un mondo statico e necessità di fuggire per vivere, per salvarsi.

[…] E parlò dell’anima delle cose e degli animali, lanciò in aria domande sulla vita e sul senso della nostra esistenza come se farle senza preoccuparci di dare una risposta fosse già un passo in avanti nella comprensione del mondo. A volte sorrideva e spostava lo sguardo verso un angolo in alto dal quale mi figuravo le venissero quelle idee folli secondo le quali ognuno di noi poteva dipingere il suo futuro seguendo i colori dei desideri. L’ascoltavo rapito come quando da piccolo mio padre mi raccontava la sua infanzia, come quando stavo sulle sue spalle, sicuro che avrei potuto affrontare qualsiasi cosa se solo avesse continuato a sorreggermi. Mi faceva volare in alto mio padre e in quella frazione di secondo durante la quale il mio corpo si staccava dalla sua grande mano per rimanere sospeso in aria, smettevo di respirare. Quegli attimi di apnea mi terrorizzavano, ma non glielo dissi mai. Pensai fosse strano che le parole della ragazza che parlavano di futuro, a me ricordassero il passato.

La partita finì con grida di gioia, abbracci e fiumi di vino, mentre noi eravamo ancora davanti alla vasca della tartaruga. Probabilmente fu l’euforia del momento di gloria sportiva a influenzarci, fatto sta che misi la vecchia testuggine nello zaino e ci allontanammo dal bar. Pedalavo sul vecchio ferro con lei seduta dietro, rideva e si muoveva facendomi sbandare come il peggiore dei ciclisti. Aveva un suono bellissimo la sua risata perché non era trattenuta come quella delle ragazze di città o forse, semplicemente, erano così tanti giorni che non sentivo qualcuno ridere che quel suono mi sembrava potentissimo. Girai senza una meta precisa, senza rendermi conto che invece lei mi stava portando da qualche parte dove ci si poteva infilare in uno di quei vecchi casolari che poche ore prima avevo pensato essere privi di vita. In verità di vita ne avevano quei muri ora ricoperti di edera, le stanze portavano ancora i segni di chi ci aveva vissuto, una finestra che cigolava, le cicale che frinivano, le nutrie che dormivano vicino al canaletto e ora la tartaruga che cercava la sua via, finalmente libera. C’erano solo la luna ad illuminare quel viso pallido ed il suo profumo di fragola che mi metteva fame, c’erano le sue mani che ad un certo punto trovarono le mie e le labbra che si incontrarono in una cosa che voleva essere un bacio. Era un’esplorazione la nostra, un conoscerci in punta di piedi, nell’afa della notte più calda di luglio e finimmo così per toglierci le maglie come a voler respirare quel momento con tutti noi stessi. Ci trovammo impacciati, curiosi e stranamente simili con la nostra pelle sudata, pochi centimetri di corpi ancora in divenire.

Tornai a casa pedalando con tutta la forza che avevo, tremando nel tentativo di trattenere la vita che mi stava esplodendo dentro. Trovai la casa dei nonni con tutte le luci accese, loro immobili ad aspettarmi sul divano buono che portava ancora il cellophane. Per un istante pensai di dover trovare una giustificazione per l’ora tarda, ma poi capii che era successo. Mio padre era morto, mi aveva lasciato nel giorno del mio volo più alto.

[Autore: Irene Pavan, anno: 2021,  Historica edizioni]

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